22 gennaio 2018

Appello per l'8 marzo 2018


Appello alle donne per un 8 marzo unitario e di lotta
Le denunce di molte attrici del cinema americano contro le molestie subite, come anche alcuni episodi avvenuti recentemente a livello locale, hanno fatto tornare alle luci della cronaca la questione dell’autodeterminazione di noi donne e della violenza che subiamo in moltissimi ambiti della nostra vita.
Spesso siamo vittime di violenza proprio nei luoghi nei quali dovremmo sentirci più protette: la famiglia, le relazioni di coppia o anche la scuola e il luogo di lavoro. Sono luoghi che dovrebbero basarsi su relazioni di rispetto e di fiducia, ma nei quali spesso prevalgono rapporti di potere e relazioni basate sullo sfruttamento e la discriminazione che ci mettono in una situazione di vulnerabilità.
Nel 2016 in Svizzera i reati registrati nella categoria violenza domestica sono stati 17’685 ossia il 38% di tutti i reati rilevanti per l’ambito domestico. Nel 48,8% dei casi di violenza domestica, la persona danneggiata e la persona accusata vivevano un rapporto di coppia; nel 25,8 per cento dei casi erano ex partner.
Nello stesso anno, la violenza domestica ha causato 19 vittime perlopiù donne (95%) e persone adulte (95%). Il 63% di questi omicidi è avvenuto nel rapporto di coppia.
In Ticino ogni giorno si segnalano alla polizia 3 casi di violenza domestica.
L’aumento delle forme più gravi delle violenze e della loro efferatezza da partner ed ex ci induce a pensare che ciò possa essere una risposta proprio alla nostra maggiore consapevolezza. E’ il caso dei molti episodi di femminicidio, la cui causa scatenante è la volontà messa in pratica o solo enunciata della donna di voler interrompere la relazione violenta o semplicemente la relazione. Donne uccise per il fatto di essere donne, donne che si ribellano e vogliono sottrarsi all’autorità maschile, donne “colpevoli” di voler affermare la propria libertà.
I media continuano a veicolare un immaginario femminile stereotipato: vittimismo e spettacolo, neanche una narrazione coerente con le vite reali delle donne. La formazione nelle scuole e nelle università sulle tematiche di genere è ignorata o fortemente ostacolata. Dalla “giustizia”subiamo l’umiliazione di essere continuamente messe in discussione e di non essere credute, burocrazia e tempi d’attesa ci fanno pentire di aver denunciato.
Quante volte abbiamo sentito dire: “l’uomo è cacciatore e la donna è preda”, “guarda quella come va in giro, poi si lamenta se la stuprano”? Quante volte abbiamo sentito dire “se l’è cercata”? Quanti commenti odiosi siamo costrette ad ascoltare davanti ad ogni gonna corta, ad ogni maglietta scollata, ad ogni donna che rivendica il suo diritto di vivere la propria vita e la propria sessualità come meglio crede?
Ma la violenza si esprime anche in altre forme. Ancora oggi nel mondo del lavoro noi donne svolgiamo generalmente lavori meno qualificati, abbiamo salari più bassi degli uomini e più spesso contratti a tempo parziale, su chiamata o contratti atipici. Il lavoro part-time riguarda soprattutto le donne e non sempre si tratta di una scelta che permette di conciliare lavoro e famiglia. Anzi sempre più il part-time è sinonimo di orari irregolari, tempi di lavoro lunghi (che si articolano su tutta la giornata) e con l’obbligo di essere sempre a disposizione anche nel cosiddetto “tempo libero”.
Inoltre, malgrado siamo maggiormente presenti sul mercato del lavoro, spetta sempre a noi svolgere la stragrande maggioranza del lavoro di cura e domestico non riconosciuto. Con un carico di lavoro che diventa eccessivo e molto logorante.

Questo fa si che molto spesso come donne non possiamo permetterci di vivere da sole e di avere una vera autonomia economica che ci permetta di autodeterminarci. Quando poi le donne si trovano a vivere in famiglie monoparentali questo elemento diventa ancora più preoccupante, le famiglie monoparentali (nella stragrande maggioranza dei casi composte da donne) sono tra le categorie più toccate dalla povertà, economica e sociale. O ancora, quando le discriminazioni di genere si intersecano con quelle razziali, come nel caso delle donne migranti, sono proprie le nostre leggi sempre più disumane nei confronti degli stranieri e delle straniere a fragilizzare e indebolire le possibilità di resistenza, di dire “no” alla violenza.
La nostra libertà è sempre più sotto attacco, qualsiasi scelta è continuamente giudicata e ostacolata. E’ merito del movimento politico delle donne se oggi si parla diffusamente di violenza maschile contro le donne, di discriminazione nel mercato del lavoro, di autodeterminazione e possibilità di decidere della nostra vita.
Crediamo sia venuto il momento di rimettere al centro del dibattito politico e sociale la questione delle discriminazioni contro le donne, cominciando a fare del prossimo 8 marzo una giornata di lotta e di mobilitazione che dia visibilità alla nostra dignità di donne e alla nostra volontà di autodeterminazione.

Invitiamo quindi tutte le donne e le associazioni interessate a partecipare a una riunione che si terrà:
Giovedì 1 febbraio 2018,
alle 20.30 alla Casa del popolo a Bellinzona.


Sarà l’occasione per confrontarsi su questi temi e sulla possibilità di organizzare una mobilitazione di piazza per il prossimo 8 marzo.

Simona Arigoni, Emida Caspani, Alessia Di Dio, Jessica Jeria, Angelica Lepori, Claudia Leu, Sandra Pagliarani, Nadia Pittà, Monica Soldini

Per informazioni e adesioni: info@iolotto.ch 

17 febbraio 2016

La soluzione PPD non è al passo con i tempi

L’iniziativa promossa dal PPD “Per il matrimonio e la famiglia – No agli svantaggi per le coppie sposate” sulla quale voteremo il prossimo 28 febbraio, si prefigge l’obiettivo di rimediare ad una disparità fiscale subita da coppie sposate/registrate rispetto a coppie non sposate. 

Peccato che poi vi siano alcuni effetti collaterali, che rendono questa iniziativa inopportuna sia per quanto riguarda la politica famigliare rispettivamente la concezione di coppia (indistintamente dall’orientamento sessuale), sia rispetto ad una futura soluzione fiscale che mira a risolvere definitivamente le diverse disparità tramite la tassazione individuale. Il PPD propone una misura che vuole ridurre una discriminazione vissuta dalle coppie sposate benestanti, ma non si pone alcun problema rispetto alle disparità vissute dalle numerose altre forme famigliari – famiglie che vivono e subiscono altri svantaggi in quello che è il sistema fiscale e assicurativo odierno.

Se a questa iniziativa merita di essere riconosciuto un passettino in avanti in termini fiscali - ossia il fatto di risolvere una disparità che tocca ca. 80'000 coppie sposate in Svizzera con reddito alto (ca. il 2% della popolazione), dall’altro lato l’iniziativa non tiene conto di un insieme di aspetti fiscali e assicurativi che, messi anche questi sul piatto della bilancia, tendono ad avvantaggiare le coppie sposate rispetto a quelle non sposate (di ca. 800 milioni di franchi). Da questo punto di vista non è pertanto opportuna, perché se si volesse veramente promuovere una fiscalità e un sistema assicurativo equo – nel rispetto di tutte le forme di coppia e famiglia (l’attuale apparato assicurativo è oramai vecchio e non tiene conto delle mutate realtà sociali), sarebbe piuttosto ora di insistere nell’introdurre un nuovo sistema assicurativo e un sistema di tassazione individuale. E proprio a questo proposito l’iniziativa propone una forzatura (sulla quale non c’è stato verso di trovare un compromesso a livello parlamentare), ossia l’inserimento nella Costituzione del sistema di tassazione della coppia quale unità fiscale. Quest’ultimo aspetto rappresenta un ostacolo legislativo discutibile, perché quando finalmente si arriverà (speriamo presto) al sistema di tassazione individuale, bisognerà tornare a cambiare la Costituzione.

La proposta, oltre a rappresentare un limite notevole per risolvere in futuro le iniquità fiscali, ha un costo salato: ca. 2,3 miliardi di franchi – soldi che, ricordiamolo, andrebbero a colmare lacune fiscali di famiglie benestanti, non di famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese. Economicamente vale pertanto la pena attendere soluzioni più efficaci a questo problema di equità fiscale a discapito delle diverse forme di coppia e famiglia. Considerate le conseguenze con le quali ci dovremmo confrontare se questa iniziativa passasse, ritengo si possa tranquillamente attendere una soluzione più all’avanguardia ed efficace di quella proposta dal PPD. 

La seconda forzatura che impone questa iniziativa a mio avviso è ancor più inopportuna di quella fiscale, perché vuole introdurre – sempre a livello di Costituzione - il concetto di matrimonio, quale durevole convivenza di un uomo e una donna, cancellando (consapevolmente) l’importante mutazione che ha vissuto la nostra società nel corso degli ultimi 50 anni e di come questo sviluppo sia riconosciuto fortunatamente da una buona parte della popolazione. La realtà famigliare odierna, nel nostro Paese, non è più rappresentata unicamente da quella che viene chiamata “famiglia tradizionale”, bensì conosce molte forme di coppie e unità famigliari. Negare questa evidenza perseverando e favorendo una sola forma famigliare, che sicuramente è condivisibile, ma non più la sola esistente, è fare un passo indietro di cent’anni, perché la nostra Costituzione non deve negare bensì riconoscere e tenere conto della profonda trasformazione che ha vissuto la nostra società. Auspicabili sono piuttosto quelle iniziative parlamentari che mirano oggi a garantire il riconoscimento delle coppie senza fare distinzioni sulla base dell’orientamento sessuale delle singole persone. Tenere conto delle numerose trasformazioni avvenute nell’ambito famigliare permette di considerare ad esempio il fatto che ci si sposa più tardi, il fatto che più del 70% delle coppie non è sposata, che il divorzio è diventato più frequente, che il lavoro delle donne (purtroppo salarialmente non ancora parificato a quello dell’uomo) e il lavoro a tempo parziale sono scelte sempre più frequenti, che ad occuparsi dei figli e dei lavori domestici in certi casi sono gli uomini, e che oggi come oggi, vi sono coppie che decidono di non avere figli. Imporre il modello tradizionale quale unico modello di convivenza, iscrivendolo perfino nella Costituzione, è una forzatura che la nostra società deve rifiutare, perché da tempo non corrisponde più alla realtà dei fatti ed è opportuno che la libertà di scelta continui ad esistere nel rispetto di tutte le forme di famiglia possibili.


Se l’iniziativa del PPD dovesse essere introdotta, rappresenterebbe un grande balzo nel passato per il nostro Paese: oltre a peggiorare l’equilibrio del sistema fiscale e assicurativo odierno - tra vantaggi e svantaggi - nei confronti delle diverse forme di coppia e famiglia, è costosa, retrograda, irrispettosa e discriminante nei confronti di coppie non sposate o con un altro orientamento sessuale, e non da ultimo ostacola l’introduzione di un sistema di imposizione individuale - ben più adeguato a risolvere i problemi di disparità fiscale tra le diverse forme di convivenza.

15 febbraio 2016

Un distinguo è d’obbligo, ma indignaRSI è doveroso


Nelle ultime settimane sulla RSI si sono spese diverse critiche e non c’è da stupirsi se questo è avvenuto, visti i licenziamenti all’americana adottati dalla nuova dirigenza dell’azienda. Un’altra cosa è invece la difesa del servizio pubblico, che non va confusa con la discussione in corso relativa ai licenziamenti alla RSI. Questo è un distinguo importante che pretendo da chi commenta i fatti avvenuti a Comano, perché confondere le due questioni è sbagliato, non è onesto in termini intellettuali e oltretutto non giova proprio a nessuno, tanto meno alla popolazione svizzero italiana che oggi fa capo ad un servizio pubblico che offre un palinsesto completo come nella altre realtà linguistiche. Su questo secondo aspetto, ossia la questione del servizio pubblico garantito dalla RSI, negli anni mi sono potuta fare una mia opinione personale e ritengo che, oggi come oggi, una parte di questa offerta - nel contesto in cui viene proposta e finanziata – non è giustificata, ma su questo discorso tornerò in altre occasioni. In questo breve scritto è sui licenziamenti che voglio spendere alcune righe.

Torniamo alla questione prettamente sindacale, ossia i licenziamenti “all’americana” – è stato usato questo termine, perché queste pratiche sono note particolarmente oltre Oceano. Non sono però riferimenti apprezzabili come “all’americana” sono invece i western, quelli di altri tempi, o ancora la fine dei film hollywoodiani particolarmente romantici. No, qui di dolce e di apprezzabile non c’è proprio niente e arrivare ad adottare pratiche così poco rispettose nei confronti del proprio personale è a dir poco vergognoso. Non mi interessa sapere se chi ha deciso di adottare queste pratiche era formato a dovere o meno (certo sarebbe molto grave se non lo fosse), perché di fronte a decisioni di questa portata è la dirigenza in primis a doverne rispondere e deve risponderne alla popolazione, perché si tratta di un’azienda che risponde ad un mandato pubblico e ha una responsabilità sociale nei confronti del proprio personale e nei confronti della società intera. Se adottare metodi di questo genere è un’azienda privata il fatto è grave ed inaccettabile per quella che è la cultura del partenariato sociale di cui dovrebbero essere portatori i nostri imprenditori, resta pertanto un atto ignobile e riprovevole, ma non tanto quando a propendere per questi metodi è un’azienda che risponde ad un mandato di servizio pubblico. Non dimentichiamoci che si tratta oltretutto di RSI, un’azienda in cui l’attenzione alla comunicazione – interna ed esterna – dovrebbe essere un punto particolarmente curato e forte, come auspicabile dovrebbe essere la buona comunicazione e collaborazione con i Sindacati; un’azienda finanziata dalla nostra società e pertanto ancora più responsabile in termini di cultura politico-sindacale. Invece è dai peggiori che la RSI è andata ad imparare o meglio sono le peggiori pratiche che la RSI ha deciso di applicare, questo è l’aspetto che lascia senza parole.

Di situazioni difficili in termini di mercato del lavoro ce ne sono e ce ne saranno ancora in Ticino, ma avendo vissuto in prima persona da sindacalista la chiusura della Clinica Humaine di Sementina, posso dire di aver visto come il dialogo e il buon lavoro svolto allora dai Sindacati abbia aiutato non poco a trovare delle soluzioni praticabili, non certo idilliche, ma rispettose nei confronti del proprio personale e delle diverse parti coinvolte. Mentre la dirigenza RSI ne ha risposto in modo molto discutibile e oserei dire “goffo”, da fuori si è potuto notare un Direttore Maurizio Canetta che ha smentito parlando di falsità, per poi fare ammenda il giorno successivo sui metodi. Questo è intollerabile, indipendentemente che poi si sia ricreduto sui metodi. Si sa da tempo che la RSI deve risparmiare e chi conosce l’azienda qualche idea sono certo ce l’abbia, ma quando poi si legge di concorsi e assunzioni parallelamente ai licenziamenti, ci si chiede con che lungimiranza abbiano agito certi vertici e che razza di politica del personale si sia instaurata in quella azienda. È naturale porgersi certe domande, perché chi queste cose le ha studiate e conosce l’azienda, può pensare a possibili alternative. Cosa che i Sindacati hanno giustamente e prontamente messo sul tavolo della discussione. Ma non ci sarà discussione, perché nonostante nel resto della Svizzera certe cose non succedano, smentire i vertici appena scelti sarebbe come ammettere un proprio errore e tornare sui propri passi …e no, in questo panorama, non vedo persone capaci di tanto coraggio.


Una cosa però è certa, il messaggio è arrivato chiaro e limpido al personale. Ora non può che regnare la legge della paura e dell’omertà e a farla franca, ahimé, non saranno certo quelli che osano alzare la testa, bensì i soliti leccapiedi. Ed è questo che fa male alla RSI, ancora più delle critiche - alle volte opportune e anche ben argomentate. E sarà proprio questo che poi, in un prossimo futuro, sarà difficile difendere: quello che col tempo è diventato questa azienda – non da ultimo un’azienda in cui la cultura del personale, che dovrebbe fungere da esempio a livello di responsabilità sociale (oltretutto perché nell’ambito della comunicazione è del mestiere) non si cura di coinvolgere le parti sociali e di adottare misure concertate e lungimiranti – quello che ci si aspetta quando si ha a che fare con aziende che operano per il servizio pubblico.